I pasticceri padovani si ribellano contro quella che sentono come concorrenza sleale. L’oggetto della disputa sono i dolci di carnevale che in questa regione sono detti galani o crostoli e che a seconda delle zone in Italia si chiamano anche chiacchiere, cenci, frappe o bugie.
E, a proposito di bugie, sarebbero proprio frottole – accusano i pasticceri – quelle che i prodottori industriali propinano ai clienti di negozi e supermercati. Insomma una competizione sul mercato viziata da due punti di vista. Da una parte perché utilizzando materia prima di qualità inferiore (in particolare gli artigiani puntano il dito sull’olio) l’industria può vendere i galani a un prezzo che è praticamente un decimo del prodotto artigianale: si arriva a 45 euro al chilo in pasticceria e ci si ferma sui 4-5 euro per quelli confezionati sugli scaffali. Dall’altra parte perché spesso nei prodotti da supermercato campeggia un’invitante scritta “cotti al forno”, insomma uno specchietto per le allodole, perché la cottura in forno può suonare come “più leggera e più sana”.
Ed ecco l’equivoco che i professionisti del dolce della città veneta, sostenuti da Confartigianato, vogliono chiarire: “Anche i galani cosiddetti cotti al forno sono prima fritti. E poi subiscono un passaggio in forno”. A esporsi dalle colonne del Mattino di Padova sono, tra gli altri, Luca Scandaletti della pasticceria Le Sablon e Ermanno Sguotto, della pasticceria Viennese. Sostengono che l’unica tecnica di cottura possibile sia la frittura, senza la quale non si otterrebbero la stessa croccantezza e le caratteristiche “bolle”. E sottolineano come, purtroppo, non esista una certificazione, e quindi un disciplinare, a cui attenersi, per cui i produttori possono dare il nome tradizionale anche a dolci “alternativi”.