È il fattore emozionale la carta vincente del made in Italy, un brand fortissimo che nell’immaginario collettivo degli stranieri (e non solo) evoca uno specifico stile di vita, una qualità peculiare dei prodotti e delle esperienze, un certo tipo di suggestioni e di autenticità. Un valore vero che il Censis, in una sua recente indagine, ha stimato: nei prossimi 5-6 anni il numero di persone nel mondo, interessate all’acquisto di beni e servizi di alta qualità, passerà da 400 a 480 milioni, cui corrisponderà una spesa di circa 290 miliardi di euro che porterà il mercato globale del lusso a un valore di 1.135 miliardi l’anno. Attualmente il made in Italy intercetta circa il 10% di questo mercato e secondo Altagamma, ricorda il Censis, per i nuovi consumatori di qualità l’aspetto emozionale varrà circa il 15% in più rispetto ai “vecchi” consumatori. Ciò significa che “lavorare” sull’aspetto emozionale della propria offerta potrebbe portare al made in Italy 90 milioni di potenziali nuovi clienti l’anno, pari a 4-5 miliardi di fatturato aggiuntivo annuo. Al contrario, una scarsa attenzione a questo aspetto potrebbe invece ridurne il valore economico della stessa cifra.
Parte da questi dati Gianluca Fascina Presidente dell’abbigliamento di Confartigianato Imprese Veneto per una riflessione scaturita da una “scoperta” personale molto recente: la vendita al pubblico di una maglietta che, pur fatta in Bangladesh, riporta chiaramente dei segnali mendaci che richiamano il made in Italy.”Ad un occhio inesperto -spiega Fascina- il bottone con il tricolore, la bandiera italiana sull’etichetta sono segni sufficienti a far percepire una oirigine che la dicitura della vera provenienza (un po’ nascosta) nei fatti nega. Per altro questa pratica è vietata molto seriamente sin dal 2004. La legge n.350, all’Art.4 comma 49 indica infatti con molta chiarezza che: l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione o la commercializzazione recanti false o fallaci indicazioni di provenienza (o di origine) costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 del codice penale con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a 20.000 Euro. Dove con fallace indicazione di provenienza si intende: l’uso di segni o figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di provenienza italiana, anche se sul prodotto sia indicata l’origine o la provenienza estera dei prodotti Esempio: logo raffigurante la bandiera italiana su etichetta di camicie prodotte in Bangladesh da impresa bangladese”.
“Già in tema di made in il quadro normativo italiano ed internazionale è sufficientemente carente – conclude Fascina- è assolutamente necessario che almeno sulle regole esistenti non venga abbassata la guardia. Servono presidio del territorio e azioni di contrasto. Bene quindi il progetto di Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta – Lagunare di intensificare l’azione di controllo in materia di abbigliamento e arredo casa nel 18/19 e soprattutto auguro un futuro brillante al progetto etichetta parlante pensato dal Tavolo Veneto della Moda e in capo oggi a Unionfiliere”.